Tobia era un cane molto educato. Sapeva quando era ora di mangiare, quando bisognava aspettare il verde per attraversare, e soprattutto sapeva che le ciabatte del nonno non si mordono.
Ma c’era una cosa che Tobia non sapeva fare, e gli dava un gran fastidio: non sapeva contare le nuvole.
Ogni mattina usciva in giardino, si sedeva sulla sua coperta preferita, puntava il naso all’insù e le guardava passare.
Nuvole rotonde, nuvole sottili, una che sembrava una balena, una che pareva un gelato sciolto.
Ma appena cercava di contarle, succedeva sempre la stessa cosa: o ne arrivava una nuova da dietro il tetto, oppure quella davanti si divideva in due, oppure sparivano tutte e il cielo diventava blu come la ciotola dell’acqua fresca.
— “Che confusione,” — abbaiava Tobia, scuotendo le orecchie. — “Ci sarà un modo per tenerle ferme almeno cinque minuti?”
Un giorno decise che era ora di risolvere il problema.
Prese una matita (che aveva rubato tempo prima alla bimba di casa), un taccuino (che non era un vero taccuino ma il libretto delle bollette), e si mise a scrivere:
“Oggi, cielo: 7 nuvole grandi, 3 piccole, 1 che sembra una sedia.”
Ma appena finì di scrivere “sedia”, le nuvole si erano già cambiate d’abito.
La sedia era diventata una giraffa, le piccole erano sparite, e al loro posto era comparsa una cosa che sembrava una lavatrice con le ali.
— “Non vale!” — grugnì Tobia. — “Così non si può lavorare!”
Da quel giorno provò tutto:
contare a voce alta, contare a voce bassa, disegnare le nuvole con la zampa nella terra (finché non arrivava il gallo del vicino a cancellare tutto beccando a casaccio), persino abbaiare molto forte, nella speranza che si fermassero solo per educazione.
Ma niente. Le nuvole erano libere, testarde, leggere.
Facevano quello che volevano, e non gliene importava niente dei quaderni, delle ciabatte o dei cani educati.
Finché un pomeriggio, mentre stava per arrabbiarsi per l’ennesima nuvola che si trasformava in un piede di porco (sì, proprio così), arrivò la bimba con cui divideva la casa.
Si sedette accanto a lui, senza dire niente, e sollevò anche lei il naso al cielo.
— “Quella sembra una lumaca, vero?”
Tobia guardò. Sì. Una lumaca con la coda da cometa.
— “E quella invece… una teiera col cappello?”
Sì! Una teiera col cappello da giardiniere.
Risero insieme.
E Tobia capì che forse non c’era bisogno di contare le nuvole.
Che il bello era guardarle, immaginarle, inventarle ogni volta.
Che in fondo le nuvole sono come i pensieri: non si lasciano mettere in fila, ma a volte, se sei fortunato, si fanno compagnia.
Da allora, Tobia non cercò più di contarle.
Si mise solo a guardarle meglio.
Fine.